La domenica della valtolla: la fatica e la dura realtà dell’Appennino (8)*

(Sergio Efosi Valtolla, fotoamatore, escursionista e narratore)

un vecchio contadino osserva la valdarda

Un aspetto che troppo poco consideriamo quando si parla di vita nell’Appennino (e pure altrove, nella campagna più interna) è la fatica.

Oggi si fa un gran parlare di ritorno in montagna per lavorare la terra; e se ne parla quasi sempre a sproposito, senza neppure lontanamente sapere quanto è duro piegare la schiena per raccogliere i prodotti della terra, estirpare erbacce, governare il bestiame e coltivare un bosco per ricavarne un reddito dignitoso.

Al principio sembra una poesia, dove tutto è bello ma, com’era solito dire mia madre, ti accorgi presto che “la terra è bassa…”, e senza fatica e perseveranza nel “gesto” non si raccoglie nulla.

Il lavoro dei campi, parlo di piccole aziende collinari e montane, ha delle regole da rispettare e difficilmente siamo noi a dettarle.

Sono piuttosto il clima, l’andamento delle stagioni e la presenza di infestanti vegetali e animali che determinano gran parte del successo di un’azione agricola.

E poi: il bestiame deve essere governato 365 giorni all’anno e non va mai in ferie; la vigna va curata come un bambino altrimenti produce uva di pessima qualità, per vino imbevibile; e potrei continuare a parlare di tanto altro.

Eppure di ritorno in montagna se ne parla spesso, infarcendo sempre “la pillola” con parole poetiche; facendo sembrare la scelta quello che in realtà non è.

La terra, intesa come lavoro, è sempre stata una scelta di fatica, che lascia poco spazio alla poesia (detto in senso giornalistico) rilasciando soddisfazione in cambio di tanto, ma davvero tanto, impegno (se non ci si mette anche il mercato con le sue speculazioni).

Ne volete la prova? Quando il Paese era prevalentemente agricolo (tra dopoguerra e primi anni sessanta del secolo scorso) c’era la corsa ad andare a lavorare in fabbrica, alla catena di montaggio, a far il garzone da muratore, perché alla fine era considerata una scelta più libera e di maggior redditività.

Ovviamente non era così, la catena di montaggio alla fine avrebbe presentato il suo conto. In pratica da una fatica in campagna si era transitati ad un’altra, altrettanto pesante e di sicuro piu insidiosa e alienante.

Il tempo è passato, la montagna non è più quella selvosa, selvaggia, macchia nera che contraddistinse il nostro Appennino per decine di secoli fino a pochi lustri fa; e non è neppure quella del primo dopoguerra che fu abbandonata massicciamente da tanti giovani in cerca di riscatto e fortuna altrove, all’ombra di un alto palazzo o di una ciminiera.

E ALLORA?

L’Appennino si torna a vivere, per chi fa questa scelta, con un approccio diverso, più legato alla libertà che non al lavoro.

Chi lo fa vorrebbe possedere una casa tipica di sasso con l’orto, magari con qualche albero da frutto e, per i più volonterosi, un minimo di pollaio. Soprattutto vorrebbe un giardino dove trascorrere ore liete oziando (dopo il lavoro).

Ma il lavoro nelle campagne dell’Appennino è altra cosa.

Pur più vicino di un tempo, L’Appennino richiede, per una scelta di permanenza lavorativa, nuovi modelli che, senza scardinare la tradizione e la storia dei luoghi, richiedono pragmatismo, servizi e sostegno istituzionale.

Un percorso ancora pieno di ostacoli, nonostante le buone intenzioni della politica e il coraggio dei pionieri che, lo stesso, tornano e resistono, accanto ai resilienti storici.

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*”La domenica della Valtolla” è una rubrica pubblicata ogni domenica dal blog. Tratterà temi di attualità relativi all’alta Val d’Arda e all’Appenino Piacentino e alle sue zone limitrofe.

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