Fate bello lui che vi suicidate il “numale” (maiale)…in casa (1 di 2).

macellazione in vall'ongina

di Brigante della Valtolla

Quando arrivava l’inverno ai Ferrai, il piccolo villaggio dove sono nato, e la neve ricopriva tutto e tutti, si poteva cominciare a vedere “l’uslè dal fréd”, lo scricciolo solitario, grande come un pollice, saltellare da un ramo all’altro sulle siepi di rosa canina, alla ricerca di cibo.

Il passero, che invece preferiva stare in compagnia, si nascondeva al caldo dentro l’erba ammucchiata nei fienili. Il tasso dormiva ormai della grossa sotto i cespugli verso l’Ongina e lo scoiattolo rosso, ancora sveglio, tentava di avvicinarsi alle case, lo si vedeva perché lasciava piccole orme inconfondibili.

Io conoscevo le orme di tutti gli animali: quelle piccole e saltellanti della “leur” (lepre), quelle grosse e profonde del cinghiale, quelle strane della volpe, che non si capiva se era venuta o se era partita, quelle infine del “gat puss” (la puzzola), inconfondibili, almeno per me, perche lasciava solo due segni leggerissimi ogni orma.

La notte si facevano sentire con il loro canto-pianto i piccoli predatori: la “sivitla” e al “ciò” (la civetta e l’allocco), entrambi avevano un richiamo amoroso piuttosto lugubre, che a quei tempi erano considerati di malaugurio o fautori di qualche magia cattiva.

La mia casa era in mezzo alla corte, due camere, (un bilocale si direbbe al giorno d’oggi), più una grama soffitta dove si faceva essiccare il frumento, mais e le castagne, veri tesori alimentari.

Da noi, nella Vallongina, il regime alimentare consisteva in farina di castagne stesa sulla polenta, minestra di pasta e fagioli cotta in acqua, polenta di granoturco lessata, fritta o abbrustolita, lardo fritto come companatico e aringa affumicata. Le erbe venivano consumate in grande quantità: radicchi di campo con pancetta e aceto, frittata di cipolla, di cicoria, di gambi di porro, di rosolacci campestri (“ciocapiat” in val Ongina).

Mio padre, che svernava sempre con noi, era bravissimo a cucinare il gatto, dopo averlo pelato e pulito, togliendo con pazienza tutto il grasso attorno alle nervature, lo metteva in concia nell’aceto per giorni, poi nel vino rosso con aggiunta di spezie che si faceva mandare dall’Inghilterra. Successivamente arrostito in grandi padelle. Il risultato era straordinario, tutti prima o poi erano passati da casa nostra a mangiarlo, e anch’io naturalmente, però sono stato convinto per un bel pezzo che quegli animali così bene arrostiti fossero in realtà delle lepri.

Nella parte alta del comune della Vernasca, a Vezzolacca e Settesorelle per intenderci, il vitto principale consisteva in castagne cotte, arrostite o seccate e ridotte in farina.

Dappertutto in montagna, non si conoscevano né bicchieri né tazze ma si usavano boccali e scodelle posti in mezzo alla tavola.

Appena fuori dalla corte le stalle, i fienili, i pollai, il porcile, ecco la vera ricchezza di noi poveracci. (1-continua giovedì 26 febbraio 2015)

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