LA MIA TERRA DOV’È? (fotoarticolo* di Sergio Efosi)
Il mio nome è Sergio, sono da generazioni, forse da sempre, della regione padana.
I miei bisnonni paterni si sono conosciuti a Lusurasco di Alseno, dove lavoravano fin da ragazzi al servizio di qualche possidente locale.
L’uno proveniva dalla sponda lombarda del Po, dalla bassa pianura cremonese, l’altra da quella emiliana, dall’alta collina della Valdarda; e si stabilirono nei dintorni di Castell’Arquato a Case Arse e infine a San Lorenzo, dov’è nato mio nonno, il secondogenito della famiglia.
Mia bisnonna paterna rimase vedova a soli ventisei anni.
Mia nonna paterna era di Pallastrelli e i suoi avevano terre anche alla Crocetta; terre arquatesi con vocazione viticola fin dai tempi più antichi; terre percorse dal principio dai Ligustini-Liguri.
Poi sono arrivati anche i Celti delle regioni lontane del nord, nord ovest dell’Europa, si sono stabiliti nel bacino del Po e tutto si è mescolato, anche nella nostra valle dell’Arda e nei suoi dintorni.
Qualcuno che s’intende di storia ha scritto che prima ancora nelle nostre terre più basse, vallive, c’erano le terramare; e gli uomini vivevano costruendo villaggi sulle palafitte accanto a torrenti, laghi e fiumi.
Infine sono arrivati i romani, altra storia, altra provenienza, altra mentalità, e han fondato la colonia di Piacenza; e a più riprese hanno iniziato una grande opera di centuriazione (e bonifica) dei terreni, realizzando grandi infrastrutture civili e militari.
Dopo molti secoli ancora, dopo Ligustini-Liguri, Celti e Romani, son giunti in successione i popoli del nord, nord-est, son giunti i Goti, i Longobardi, i Franchi e con loro una nuova era.
Quando giunsero i Longobardi gran parte delle infrastrutture romane erano ormai abbandonate, quando non completamente devastate (compresa la Via Emilia, la consolare più importante del nord); e la popolazione superstite della lunga guerra gotica, delle frequenti e conseguenti epidemie e carestie, era ridotta al lumicino, al minimo quasi assoluto. L’agricoltura era distrutta e le terre delle valli e del piano invase dalle acque dei numerosi torrenti che scendevano verso il Po, con il bosco che nuovamente si era ripreso gran parte del territorio; e tutto divenne nuovamente boscaglia, a volte profonda e cupa. Poi iniziò una lenta ripresa, poi giunsero i frati civilizzatori e fondarono la grande Abbazia di Tolla…
E il rapporto con l’Arda, da parte dei valligiani, non è mai venuto meno: amata, ampiamente percorsa e frequentata, maltrattata, depredata, e infine quasi del tutto asservita agli interessi, non sempre limpidi, dell’uomo.
Intere generazioni, a cominciare da mio nonno e mio padre, han percorso il torrente da una sponda all’altra, tra un “pozzone” e il tratto di scorrimento più veloce, tra le ghiaie e le siepi temporanee per cacciare e pescare o semplicemente per trascorrer qualche ora lieta lontana dalle faccende quotidiane del vivere e del sopravvivere di quei tempi difficili.
Ma mentre mio padre percorreva l’Arda anche per guadagnarsi il pane come ragazzo-garzone del carrettiere, trasportando sassi dalla Ca’ Matta (Castell’Arquato) a Cremona, compiendo due-tre volta alla settimana un lungo viaggio notturno, io mi divertivo a pescare e a far sfoggio di acrobazie in quelle estive, pulite, acque correnti; e quasi mai approdavo alla sponda sinistra, quella di S.Cassano. Restavo dalla mia parte che ora è un inguardabile discarica, regno di pongoni, tollini arrugginiti, plastica sporca e forse amianto.

La mia grande valle, quella del cuore, resta sempre quella dell’Arda, quella che al principio dovette essere un immenso acquitrino, dalla pianura alta fino al Po.
Quella valle che era grondante di sale marino e che i secoli han dilavato lasciandone tracce tra Bacedasco e Cstell’Arquato; e anche fino al monte, almeno fino a Salino di Morfasso.
La mia Valdarda è quella dove il filo della corrente, quello che governava il lento e sinuoso scorrere delle acque superficiali verso nord, che per secoli si spostava da una sponda all’altra, grattando terra e riva, ha finalmente creato un proprio alveo che ancora conserviamo…male.
Nella mia valle le sagre erano l’occasione più importante per frequentare i paesi; e ricordo quelle di Santa Apollonia, di San Giuseppe, della Santa Croce e quella del luglio, quella del caldo, della fine della mietitura, quella che si festeggiava facendo qualche giro sul calcinculo, mangiando anolini in brodo, l’anatra arrosto e partecipando al ballo paesano.
Era il giorno in cui le ragazze si potevano corteggiare nella balera, alla luce del sole…ma senza esagerare.
Le sagre erano la costante da tanti secoli, uguali e diverse allo stesso tempo in tanti paesi della valle e del Paese; e quasi tutte scomparse e sostituite da improbabili fiere della paccottiglia e dello scherzetto.
Tuttavia non ho imparato a frullar nelle balere, nossignore sono rimasto un padano anomalo, di riva e di boscaglia; e mi piace andar dove cresce spontanea la robinia, dove c’è il castagno, il faggio e il ciliegio selvatico.
Questa è la terra per la quale racconto le mie storie, una terra dove son nato e vissuto, che vorrei ancor più bella e rispettata, più raccontata e celebrata, per ridarle quel prestigio che merita; per ridare voce agli antenati liguri e longobardi, i perdenti della storia che pure han lasciato tante tracce da scoprire e far conoscere, iniziando da Veleia e dall’Abbazia di Tolla…
La mia terra è quella di tanti di noi, come lo è la mia storia.
La mia terra è la Valle dell’Arda.
* le foto dell’articolo (salvo diversa indicazione) sono tratte dal repertorio di valdarda foto

Complimenti Sergio!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Se tutti avessimo 1/10 della Tua sensibilità vivremmo in un vero paradiso terrestre!!!!!!!!!!!!!!!!
I Tuoi Valligiani dovrebbero, perlomeno, osannarti…..
Grazie.
Edgardo
Grazie per il tuo commento. Sergio.