CRONACHE DA VALTOLLA (non siamo gente di pianura) (1)

ECCOCI, COME AVEVAMO ANNUNCIATO, A RIPRODURRE UN RACCONTO CONTENUTO NEL BEL LIBRO DI FAUSTO FERRARI “CRONACHE DA VALTOLLA..non siamo gente di pianura”

Il racconto che abbiamo scelto (…non è stato facile) per iniziare è “Un Orso bruno ai Teruzzi”.

Vi è, in alcune parti del racconto, un omaggio alla bellezza della valle alta dell’ Arda che ci è particolarmente piaciuto…..un omaggio/nostalgia alla sua terra d’origine di “Michè” Domenico….che solo chi è dovuto emigrare può riuscire a rendere così efficace.

Buona lettura.

Un Orso bruno ai Teruzzi (1)

di Fausto Ferrari

C’era una volta, non tanto tempo fa, una slava girovaga che possedeva un grasso e simpatico orso bruno, l’aveva trovato ancora piccolo sui monti del Kom nel Montenegro, dove lei era nata sulle rive del fiume Tar, ai confini della regione del Kfell, abitata dagli Snorhk.

Pazjota, così si chiamava la slava, aveva conosciuto a Zara un tale di nome Domenico, che si dichiarava proveniente da una piccola valle di un piccolo paese di una piccola provincia dell’Italia del nord.

La valle era quella di Tolla e il paesino si chiamava… Teruzzi.

Domenico aveva abbandonato la valle e la sua gente in giovane età, per mancanza di lavoro.

Aveva girato per l’Europa facendo i lavori più incredibili: a Parigi aveva fatto il portaghiaccio e l’addetto alle caldaie del riscaldamento (lo scaldino, per intenderci).

Erano lavori duri, che solo i “Macaronì ” sapevano o accettavano di fare.

Comunque la paga era buona, e permetteva una lunga vacanza, dato che con l’arrivo del caldo il servizio non era più richiesto. I più tornavano a casa per riprendere il lavoro dei campi interrotto l’autunno precedente.

Ma Domenico (Michè lo chiamava la gente di valle), non aveva terreni e neppure famiglia, e anche se gli mancava maledettamente la sua terra natia, ne approfittava per spostarsi in lungo e in largo per il vecchio continente.

Trovare lavoro al macello di Amsterdam o seppellire morti a Odessa, per lui non aveva la benché minima importanza.

Un giorno, a Zara, mentre suonava un vecchio organetto, vicino a un grande palazzo Asburgico, Domenico incontrò Pazjota e il suo orso, e subito capì di aver trovato la donna della sua vita e per un bel po’, insieme girarono le capitali europee una facendo ballare il suo orso al suono dell’organetto dell’altro.

Nelle sere passate vicino a un fuoco, accampati con il loro carro in riva ad un fiume o in qualche riparo occasionale, Domenico raccontava a Pazjota della bellezza delle sue montagne e delle immense foreste di Cerri che le ricoprivano.

Le raccontava che la valle, delimitata in alto da cime sinuose, intercalate da picchi rugosi e maschi, è solcata nel bel mezzo dall’Arda che serpeggia limpida a valle.

Le sue sponde sono ricoperte da una vegetazione fitta, di un verde cupo, alternata da prati discreti, densi di fiori bianchi, gialli e blu che spiccano tra l’erba di un verde più tenue e delicato, quasi si vergognasse di interrompere l’arcobaleno dei fiori.

La vallata si mostra così a maggio, in uno dei suoi momenti migliori: umile, bella, calda e accogliente come le belle donne che la popolano.

In autunno poi la valle non è bella, diventa affascinante, così ricca di colori.

Questo nelle stagioni più propizie, stagioni che durano praticamente tutto l’anno, eccetto i tre mesi d’inverno, quando, sotto la neve, la sua bellezza sfiora la magia.

“Certo che a prima vista uno non la può apprezzare appieno”, raccontava Domenico, continuando nella descrizione, “Per comprenderla e amarla bisogna vivere con lei le varie ore del giorno, sentire nella notte lo scorrere continuo del fiume, e lontano nel bosco il ripetuto richiamo del gufo, oppure a primavera, in una limpida serata di luna, ascoltare il multiforme canto dell’usignolo tra i cespugli bassi, lungo il letto del Rio della Bratta o nell’altipiano dei Sarè”.

Ogni sera, Domenico raccontava della valle, trovando sempre nuove parole per descriverne la bellezza. Pazjota lo ascoltava assorta come solo una donna innamorata del suo uomo sa fare.

E Domenico narrava che dalle sponde del fiume a valle, su, su, fino a lambire i Teruzzi, la zona era ricoperta da querce immense, da cerri alti e numerosi tanto da oscurare il cielo.

E questo su entrambe le rive del fiume, che scorreva limpido e tranquillo, mormorando tra gli alberi quasi essi fossero i garanti della sua purezza.

Insomma, la valle alta dell’Arda faceva proprio un bel vedere.

(1-segue; il 29 aprile)

Un commento

  1. il racconto è quasi commovente.
    chissà come si sentivano i nostri avi quando li chiamavano macaronì.
    forse come si sentono i neri (quelli bravi che sono la stragrande maggioranza) quando si sentono chiamare sporco negro vattene a casa tua.
    Domenico di teruzzi non so individuare chi poteva essere, ma ha descritto tanto bene la zona che non ci sarei mai riuscito.
    bravo l’autore del racconto.
    complimenti.

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