Monte Moria: orco o eremita? (di Sergio Efosi Valtolla, fotoamatore, blogger, escursionista e narratore).
Negli anni che dovettero precedere l’arrivo dei frati in Valtolla, di sicuro in piena epoca longobarda, giravano strane voci nei rari e piccoli villaggi dell’alta valle; voci che segnalavano con insistenza la presenza uno strano “essere” sull’acròcoro del Moria, definizione, quest’ultima, acculturata di “altopiano”, in uso presso la letteratura tecnica. L’essere solitario e schivo, pare vivesse in un misero rifugio occultato dalla fitta e impenetrabile boscaglia che dominava i luoghi; scarsamente frequentati perché si riteneva fossero infestati da presenze demoniache e da divinità malvagie. Non era ancora, quella, l’epoca della piena cristianizzazione dell’intera zona appenninica per cui fauni, silvani, divinità pagane e demoni, capricciosi e dispettosi, erano ancora temuti e venerati. I meglio informati giuravano si trattasse di un semplice eremita “forestiero”, giunto da chissà dove, ma i più insistevano sulla stranezza dell’essere. Taluni, fantasiosi, si spingevano oltre, descrivendolo con sembianze deformi e paurose.
Altri più discretamente e concretamente discutevano a quale dei due lati dello spirito potesse appartenere: se a quello del bene oppure a quello temutissimo del male.
Le grandi boscaglie che si estendevano senza soluzione di continuità da Mignano alle valli più interne e sconfinate dell’alto Appennino erano, in massima parte, fittissime con alberi giganteschi che a malapena lasciavano intravvedere il cielo ai rari frequentatori di tali luoghi.
Ambienti umidi, spesso scuri e molto ombreggiati che di sicuro ispiravano e alimentavano racconti di paura.

Coloro che volontariamente vi si inoltravano potevano tranquillamente occultarvisi senza il timore che qualcuno mai li scovasse. I pochi coraggiosi, insediati nei rari e piccoli villaggi sorti nelle radure della boscaglia, erano in massima parte fuggiaschi da guerre, epidemie e carestie tremende che avevano distrutto anche il territorio piacentino nei secoli intercorsi tra la caduta dell’impero e l’arrivo dei Longobardi; e in tal contesto non mancavano neppure i banditi. Tutti alla ricerca della mera sopravvivenza o del nascondiglio sicuro. In pratica questa grande boscaglia era come un grande e impenetrabile “deserto”, dove al posto della sabbia c’era una distesa verde infinita e impervia che tutto occultava.
In taluni luoghi della grande boscaglia erano rimasti o si erano stabiliti anche rari gruppi di boscaioli e cacciatori intrepidi.
In ogni caso quella fu l’epoca alto medievale che registrò il più grande tracollo demografico che la penisola ricordasse.
La presenza umana nel nord Italia era divenuta più che rara e su questi monti pare non superasse le poche decine di individui. Si trattava, nel caso dell’alta Valdarda, di boscaglie desolate dove sopravviveva una rete di vecchi sentieri decaduti e a tratti interrotti; luoghi ideali per l’eremitaggio che ricercava, sull’esempio dei Santi eremiti orientali, l’isolamento e la solitudine più profonda per dedicarsi alla preghiera perenne e alla salvezza della propria anima.
Chilometri di boscaglia fino alle cime del monte Lama e poi ancora oltre fino a ricongiungersi con altre valli e poi, quasi senza soluzione di continuità, fino a raggiungere le costiere del mare della Liguria.
Luoghi che, pur con fatica, avevano frequentavano i primi abitatori antichi di queste terre, quelle tribù di Liguri che per secoli contrastarono e occuparono la boscaglia, facendo pascolare i loro armenti e costruendo insediamenti ai margini della stessa fino alle prime colline verso la grande pianura del Po. Ma da quei tempi “tanta acqua era passata sotto i ponti”, da quelle parti erano transitati anche i cartaginesi e i romani fino al silenzio, con il prevalere dell’esercito della natura che per lunghi secoli determinò l’oblio; la natura, ancora una volta, si era ripresa anche quelle superfici “roncate” nel corso di lunghi secoli dall’uomo e tutto era tornato come all’inizio.
La boscaglia dominava incontrastata il panorama appenninico, gli anni e i secoli passavano e le foreste crescevano, il sottobosco si infittiva e la luce a fatica penetrava in queste valli misteriose e umide dover scorrevano l’Arda, il Lubiana, il Chiavenna, il Chero, il Riglio, l’Ongina, ecc… . Solo da qualche parte resisteva un villaggio, un piccolo villaggio di superstiti o un nuovo aggregato formato da fuggiaschi dediti alla caccia e alla raccolta dei frutti spontanei.
Fu in quell’epoca, nel secolo VII, che sull’acròcoro del Moria fu (ri)scoperto un bosco, un grande bosco, dove imponenti carpini, cerri e faggi avevano assunto forme assolutamente inusuali, quasi si trattasse di un tocco d’artista, capolavori dell’arte topiaria che solo il Divino poteva aver ispirato; capolavoro custodito per secoli dalle “fate”. Ma una notte non molto lontana dai giorni nostri, lo spirito del male armó le mani dell’uomo che abbatté il meraviglioso bosco facendo fuggire per sempre le “fate”, ambasciatrici divine, che ora si trovano nascoste in qualche altro luogo impervio della Valtolla. E forse a qualcuno sarà capitato di incontrarle…
L’essere misterioso del Moria, ormai in età avanzata, che tanti sospetti aveva destato in quei rari abitatori della dell’alta valle dell’Arda, un giorno venne incontrato da un drappello di frati Tollensi, da pochi mesi insediatisi da queste parti, mentre stava posando pietre in una piccola radura. Lo osservarono per l’intera giornata, accorgendosi che stava erigendo un piccolo altare. L’indomani tornarono silenziosi sui loro passi e, con grande stupore, scoprirono che quell’altare aveva le sembianze di quelli cristiani perché sormontato da una piccola croce di legno. Silenziosamente e cautamente si avvicinarono per poter osservare meglio e dal profondo del bosco udirono un canto, un canto che ricordava le lodi alla Madonna. Un canto che non invocava alcun spirito del male.
Più rassicurati, pur sempre con molta cautela, avanzarono ancora rimanendo occultati nel folto della boscaglia. Scorsero una modesta capanna, tutta in pietre e frasche dalle quali proveniva quel canto….
Quell’essere misterioso al termine delle lodi, uscì allo scoperto e si diresse verso l’altare nella radura. Qui restò immobile, quasi in trance, silenzioso con le mani e lo sguardo rivolto al cielo.
Passarono ancora molte decine di minuti e poi all’improvviso quei frati intonarono quella lode alla Madonna, lieve come la brezza di quella mattina e restarono in attesa.
Furono attimi lunghissimi, silenzi assordanti, battiti di cuore…
Quell’essere, senza nemmeno girarsi, riprese quella lode e fu il coro che dopo quel lungo e interminabile attimo prese il sopravvento.
Quel vecchio era un eremita, un asceta, un essere certamente non demoniaco come qualcuno aveva insinuato.
Fraternizzarono e il vecchio si convinse che era giunto il momento di pregare in maniera comunitaria, di scendere da quel monte per unirsi ai suoi fratelli per sempre. Quel vecchio forse si chiamava Tobia.
E il luogo dov’era stato eretto il piccolo altare eremitico divenne la meta del pellegrinaggio ove i frati, seguiti dagli abitanti del luogo, si recavano al solstizio d’estate per lodare la Madonna; e poi vi costruirono una cappella che racchiudesse quel primitivo altare.
Ancora ai giorni nostri sull’acròcoro del Moria, ora parco provinciale, ci son luoghi dove s’incontra la Madonna. Sono i “luoghi dei segni” percorsi da migliaia di pellegrini nel corso dei secoli. Percorsi dagli escursionisti del terzo millennio.
Tutto in quel Parco del Moria ricorda questi segni antichi: la fontana, la vetta, la chiesetta dedicata alla Madonna del monte, la radura, il sentiero, la boscaglia…
Il Moria è un parco per riposare, per camminare e per contemplare quelle divine bellezze naturali.